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Ella
così fa curiosa mostra di un'aquila a chi l'osserva dal colle della Madonna
della Scala, e da colà chi v'entra in città, intera in tutte le sue parti
la vede e la comprende.
Così ci presenta la città di Scicli l'arciprete
Antonino Carioti nelle sue Notizie storiche della città
di Scicli, scritte intorno alla metà del Settecento.
Il Carioti sostiene che la città assunse la sua forma tra il XIV e il XVI
secolo, venendosi a saldare durante questi tre secoli i casali, nuclei di
"palagi e case", definendosi nel secolo XVI le "pubbliche
strade". Diversi i casali individuati: quello dell'Abbeveratoio
"ove dopo fu il monastero della Concezione",
quello di S. Giovanni Evangelista, quelli della Maddalena,
di S. Giuseppe, di S. Vito, di Santa
Venera. Nella storiografia siciliana, dal Fazello al Pirri all'Amico
la città viene definita "oppidum", facendo riferimento alla sua
funzione militare. Doveva essere una città cinta di mura se il Carioti cita
sette porte, quattro torri sulla vetta
della collina, una delle quali triangolare. Nella parte bassa della città
si trovava una "antichissima torre" chiamata della Botte, ancora
visibile nella metà del Settecento. Un'altra torre si trovava in piazza
Fontana, demolita per far posto al monastero della Concezione, un'altra
torre si trovava nel "cosiddetto Oppidum, sei nella contrada del Casale,
oggi facente parte del quartiere di S. Giuseppe, un'altra appellata la Torraccia,
sorgeva sotto il convento dei PP. Cappuccini", una piccola si trovava
nel quartiere di S. Leonardo. Altre torri si trovavano in contrada Spana,
nella contrada del Castello e "un'altra tuttora esistente, contigua
all'antichissima chiesa di
Santa Maria
delli Milici".
Nel 1640 Mariano Perello così la descrive: "Distante
non più che un miglio e mezzo della marina, e però comoda a partecipare
de' commodi, e delitie di quella, e principalmente della prospettiva, soprastandole,
e godendo del passaggio de' Vascelli, così per il Levante, come per il ponente;
ove non si sente nel più freddoso inverno rigidezza di tempi, ma una continua
Primavera. Hoggi in essa vi sono commode habitationi dè Baroni Sciclitani
fatte dalle rovine di essa Città, e appaiono molte vestigia di quella antichità,
che fanno evidente testimonianza della sua grandezza, e magnificenza, come
sono Tempi, Grotte, Sepolture, Acquedotti (chiamati di fontana nuova) pietre
tagliate, e in quelle trovatesi Medaglie, vasi di creta rossa, lumiere,
pezzi di statue, e idoli marmorei". Il Perello, il cui interesse
è prevalentemente archeologico, cita una "torre triangolare antichissima...
nell'antico Castello di Scicli... a dirimpetto della quale
torre triangolare, vi si oppone il Castellaccio".
In relazione al castello il Perello segnala l'esistenza di percorsi sotterranei:
"poiché di sopra di detto Castello, fino ai luoghi di basso, che
allora erano incolti, e inhabitati, ma fertili d'acque, e di legni, cavarono
una rocca e fecero una meravigliosa miniera, o cava (come vogliano chiamarla)
sotterranea da 500 passi in circa, quale fin al giorno d'hoggi si conserva
e si vede: ove vi possono agiatamente passeggiare due homini a cavallo,
e due a piedi: la qual miniera mostra estendersi di sopra del Castello,
fino al molino sotterraneo, chiamato della Botte, nel luogo di Donna Bruna,
fabbricata con grande arteficio di pezzi massicci di pietra di tufo, di
sei e quattro palmi di lunghezza. Un'altra miniera sotterranea si vede tutta
di roccia tagliata, chiamata al di d'hoggi cento scale, la quale ha principio
da un luogo antico detto la meschita, d'onde si cala in una grotta la quale
hoggi è trappeto, e si diffonde di là più oltre in una fonte d'acqua scaturiente,
che inonda tutta la città di Scicli".
Il Carioti cento anni dopo vede la città come città dell'utopia:
"allietata da un'aria salubre, ricca di una campagna ferace di
biade, di vigne, di frutta e di ottimi pascoli e quindi pur ricca di ogni
sorta di bestiame". Ci fornisce il numero di 11.076 abitanti nel
1714 e così la descrive: "La esistente città cominciò ad essere
edificata circa la metà del secolo XIV. Dessa in parte è contigua agli avanzi
dell'antica città, sebbene l'odierna sorse con migliori e più eleganti edifizii,
i quali nella massima parte furono distrutti dal terremoto del 1693; però
risorse con fabbriche più magnifiche; come lo contestano i superbi edifizii
delle chiese, dei conventi e dei palazzi. I molti giardini che la cingono
la rendono deliziosa e le ridenti colline che la incoronano, concorrono
ad abbellirla; lasciando libera la parte dell'occidente per farci godere
un vago e incantevole orizzonte". Poi continua in un atteggiamento
celebrativo, da paese di Bengodi: gustosi caci, i vini "primi del regno",
frutta squisita; canapa, carrube e bestiame; pesca di mare e di fiume. Dal
mare si ricavano ambra e coralli "alla pesca dei quali in ogn'anno
nei mesi di giugno e luglio vi ci occupano con pratico artificio non meno
di quaranta barchette trapanesi, e nello scorso anno 1758 pur vi concorsero
50 barchette napoletane". Loda la giustizia dei Conti e ricorda
le forche "continuamente erette e impiantate lungo la costa della
collina della Croce... ove i malfattori erano strozzati
al cospetto di tutta la popolazione". Le altre torture venivano
ad essere effettuate nel castello maggiore e in piazza Fontana. "La
mannaia destinata per la pena capitale dei nobili" si conservava nel
Castellaccio. Durante le feste religiose si praticavano le corse, la quintana,
il gioco "della lancia che in aria dovea spezzarsi in più rottami",
il tiro al bersaglio.
Gli archeologi tendono a collocare la formazione del primo nucleo urbano
nell'ottavo secolo dopo Cristo. Scrive Pietro
Militello: "A partire dal 747 d.C., dopo aver sconfitto gli
Arabi a Cipro, l'impero bizantino avviò un processo di incastellamento destinato
a contrastare la temuta invasione. Tra queste fortificazioni una dovette
essere probabilmente quella dei "Tre cantoni",
che fu impiantata a S. Matteo per controllare il punto
di confluenza delle tre cave del torrente di Modica,
di S. Maria La Nova, di S. Bartolomeo".
Al Idrîsi, un geografo arabo che scrive nell'XI secolo,
la individua come "Siklah, posta in alto sopra
un monte, è delle più nobili, e la sua pianura delle più ubertose. Dista
dal mare tre miglia. Il paese prospera, moltissimo popolato, circondato
da una campagna abitata, provveduto di mercati ai quali viene roba da tutti
i paesi", un paese visto come felice e prospero. Nel 1336 risultano
nel territorio di Scicli 17 feudi che forniscono una rendita annua di 344
onze, con una potenzialità militare di 105 cavalli. Più scarna l'immagine
che ci viene dalle Rationes decimarum Italiae dell'Archivio Vaticano riferite
al 1308-10 pubblicate dal Morana. Scicli è chiamata "casale".
Nel 1366 viene chiamata "terra" e conta 292 case: "possiamo
ancora aggiungere - scrive il Morana - che a Scicli il monastero di santa
Maria de Latina vale due onze e mezza mentre la chiesa di S. Matteo e quella
di S. Nicola valgono un'onza ciascuna".
Prevalente è stata nella storiografia locale l'attenzione per la fondazione
di chiese conventi e monasteri. Nel 1165 la chiesa di S. Matteo
è documentata per il pagamento delle decime. Il monastero benedettino di
S. Filippo e Lorenzo, citato in una bolla di papa Benedetto
Nono, tra il 1033 e il 1046 è ubicato lungo il torrente Modica-Scicli, trasferito
quindi dentro la città, presso la chiesa di S. Filippo d'Argirò. Seguiranno
la fondazione dei conventi dell'ordine francescano, carmelitano, domenicano,
di diversi ordini monastici tra il XVI e il XVII secolo. La prima ed unica
parrocchia della città fino al XVI secolo fu quella di S. Matteo
Apostolo; quella di Santa Maria la Piazza sarà
istituita nel secolo XVI nella parte bassa della città, per soddisfare le
esigenze della popolazione prevalentemente residente nel fondovalle. Molte
le confraternite che tra il XV e il XVI secolo vengono
ad essere istituite. Nel 1561 vengono menzionate "quella di Santa
Maria la Pietà, indi detta di Santa Maria la Nova, di S.
Bartolomeo, di S. Giovanni Evangelista, di S.
Michele, della Consolazione, del Salvadore,
della Madonna della Grazia, di Sant'Agrippina,
di S. Vito, di S. Iacopo, di Santa
Barbara, della Madonna del Suffragio dentro la
chiesa della Maddalena, oltre alle compagnie del Monte della Pietà
nell'Ospedale, del SS. Sacramento, della Concezione,
di Santa Maria la Piazza, di S. Guglielmo".
Politicamente la città farà parte della Contea di Modica
sotto il governo dei Chiaramonte dalla fine del XIII secolo,
poi dei Cabrera e successivamente degli Enriquez-Cabrera
dopo il matrimonio del 1486 di donna Anna Cabrera con don Federico Enriquez.
Nell'ambito della Contea ha una funzione militare. Il Carioti nel '700 ricorda
214 cavalieri e 673 fanti. Uscendo dal vago riguardo alla produzione agricola
il Morana ricorda che la città nel Quattrocento "è terra dove si produce
canapa oltre che grano e sappiamo che, nella sua marina, si coltivava cannamele".
Nel 1543 i terraggi di Scicli fruttano al Conte 485 salme di frumento rispetto
alle 619 salme di Modica e alle 1164 di Ragusa. Le gabelle rendono 785 onze
rispetto alle 1263 di Modica e alle 1086 di Ragusa. L'espansione demografica
tra Quattrocento e Cinquecento è consistente: si passa da 1275 abitanti
circa del 1336 a oltre 12.000 abitanti del 1569.
Il secondo Cinquecento e il primo Seicento sarà stato un momento di grande
espansione economica, anche in virtù delle concessioni enfiteutiche fatte
dai Conti di Modica e della occupazione illegale di terre20. I terremoti
e le trasformazioni che gli uomini hanno compiuto sulla città hanno in gran
parte cancellato le testimonianze architettoniche precedenti al terremoto
del 1693. Nel 1542 il Morana cita un "mirabile
et spaventosum terremotum in ditta terra Xichili, Mohac et in pluribus aliis
terris huius regni Siciliae, in qua terra Xichili dictum terremotum perduravit
cum suo maxiomo impetu et tremore per spatium unius miserere".
Gli indizi ci portano a dire che una intensa attività edilizia è stata costante
sia nel XVI secolo che nel XVII. Basti citare gli ampliamenti della chiesa
di Santa Maria la Piazza, di S. Bartolomeo, di Santa Maria la Nova, con
la presenza in quest'ultima architettura dell'architetto Mariano Smiriglio
nei primi del Seicento. Una storia significativa di capimastri si riscontra
fin dalla fine del '400: Antonio Belguardo di Scicli, presente per la chiesa
di S. Matteo, lo troveremo attivo a Palermo tra la fine
del '400 e i primi del '500. Nonostante le distruzioni ci restano ancora
alcune architetture significative: la cappella della chiesa di Sant'Antonino,
della prima metà del Cinquecento che, a pieno titolo, rientra nella storia
dell'architettura siciliana di questo momento, coniugando una tradizione
gotica con stilemi rinascimentali; la facciata della chiesa di Santa Maria
della Croce, sobria ed elegante nello stesso tempo. Nell'ambito delle arti
figurative la partecipazione alla cultura rinascimentale è suffragata dalle
sculture marmoree della Madonna della Neve in Santa Maria
la Nova e di Sant'Agrippina in S. Giuseppe. Non ci sono
pervenuti i gruppi scultorei realizzati nel 1564 dallo scultore Antonio
Monachello di Noto con 14 statue lignee rappresentanti Il Santo Sepolcro
e il presepe monumentale nel 1575 della chiesa di S. Bartolomeo con sculture
lignee di prima veduta "a grandezza d'uomo". La cultura manieristica
si evidenzia nella lastra tombale del medico Pietro Militello del 1565,
conservata oggi nella chiesa di Sant'Ignazio.
Il Seicento è un secolo di contraddizioni, funestato da carestie, da invasioni
di cavallette, da pestilenze, vivace nello stesso tempo culturalmente. La
peste del 1626 riduce la popolazione di due terzi, passando da 11.000 circa
a 4.000 circa. Ben presto agevolazioni viceregie di cancellazioni di debiti
per chi veniva a risiedere in città determineranno un incremento demografico:
nel 1636 si contano 7147 abitanti, nel 1651 9382 abitanti. Intorno alla
metà del secolo vengono istituite quattro collegiate: nella
chiesa di S. Matteo, nella chiesa di S. Bartolomeo,
in quella della Consolazione e in quella di Santa
Maria la Nova. Sono aperti i cantieri della chiesa di S. Matteo,
della chiesa della Consolazione, della chiesa e del Collegio gesuitico,
del convento del Carmine, di quello dei Padri Cappuccini, dei monasteri
di nuova fondazione. Nasce una storiografia locale ad opera di Mariano
Perello, si istituisce l'accademia degli Inviluppati, si mettono
in luce il poeta Vincenzo Celestri e il medico Pietro
Antonio Cavallo. Il Carioti ricorda due pregevoli opere di Filippo
Paladini: una Natività nella chiesa di Santa Maria la Nova e una
Deposizione nella chiesa dei Padri Cappuccini, entrambe a noi non pervenute.
Sempre a questo secolo si riferiscono una Deposizione da assegnare a Mattia
Preti, o alla sua bottega, originariamente nella chiesa
dei Padri Cappuccini, oggi nella chiesa di S. Bartolomeo, Il Martirio
di Sant'Adriano attribuito al Barbalonga e L'Immacolata
tra i Santi Guglielmo e Bartolomeo di Francesco Cassarino.
Il terremoto dell'11 gennaio del 1693, in cui moriranno
circa 3.000 abitanti, distrugge una città che oramai aveva assunto la sua
fisionomia e che durante il Settecento non modificherà il suo impianto urbano.
Questo studio riguarda la ricostruzione settecentesca che continuerà anche
nella prima metà dell'Ottocento. Non c'è stato durante il secolo XVIII un
momento privilegiato rispetto agli altri; la vicenda ricostruttiva è un
continuum in cui non si notano cesure. La fisionomia complessiva vede il
combinarsi di una persistente cultura manieristica con quella tardobarocca.
Nell'immediato, dopo il terremoto, si pensa prevalentemente a ristrutturare,
conservando laddove era possibile quanto era rimasto delle strutture precedenti.
Per volontà vescovile la prima architettura ecclesiastica che si inizia
a ricostruire è la chiesa madre
di S. Matteo, il cui cantiere durerà cento anni. I Gesuiti,
la cui chiesa stava per essere ultimata alla fine del '600, ricominciano
ben presto la ricostruzione, portando a termine le fabbriche a metà Settecento.
Si recupera il recuperabile nella chiesa della Consolazione che manterrà
parti secentesche. Lo stesso può dirsi per la chiesa e il convento
di Sant'Antonino, per il complesso conventuale dei Padri
Cappuccini, dei Frati Minori del terz'Ordine presso
la chiesa di santa Maria della Croce, dei Frati
Minori Osservanti presso il convento di Santa Maria del
Gesù, per il convento e la chiesa delle Milizie.
Si officerà nelle parti rimaste in piedi nella chiesa di S. Bartolomeo
e nella chiesa di Santa Maria la Nova. Non abbiamo ancora
tutti i nomi dei protagonisti della ricostruzione subito dopo il terremoto.
Un ruolo significativo l'ebbero i capimastri Corrado Iacitano,
Mario Spada, Simone Caccamo Blandano.
Non sono ancora venuti alla luce nomi di architetti. I progetti più ambiziosi
della ricostruzione tardobarocca vengono ad essere elaborati nella fase
centrale del secolo.
La chiesa di Santa Maria la Nova si costruisce con un nuovo
progetto a partire dal quarto decennio, con un ruolo progettuale dell'architetto
palermitano, il sac. Giuseppe Fama, e dei capimastri Girolamo
Iacitano e Mario Mormina. Michelangelo
Alessi, tra il quarto e il quinto decennio progetta la chiesa
di S. Michele Arcangelo. Nel quinto decennio è da individuare la
progettazione della chiesa del Carmine ad opera di fra
Alberto Maria di S. Giovanni Battista. Nel sesto decennio sarà
probabilmente progettata la chiesa di S. Giovanni Evangelista,
in cui troveremo nell'ottavo decennio la presenza degli architetti Vincenzo
Sinatra e fra Alberto Maria di S. Giovanni Battista,
il frate carmelitano residente nel convento del Carmine, protagonista dell'architettura
ecclesiastica a Scicli tra il quinto e il nono decennio del '700. Una ristrutturazione
consistente a partire dagli anni '50 si avrà per la chiesa di S.
Bartolomeo nel suo interno, con interventi costanti nelle strutture,
negli apparati decorativi e negli arredi fino agli anni ottanta. Resta ancora
da chiarire la progettazione per le facciate sia della chiesa madre
di S. Matteo, portata a termine negli anni sessanta, sia della
chiesa annessa al Collegio gesuitico che verrebbe ultimata negli anni '50
del secolo XVIII. Il cantiere della chiesa di Santa Maria la Piazza
è aperto tra gli anni quaranta e gli anni settanta; disegnerà la facciata
della chiesa il bravo capomastro Pietro Cultraro. Sarà
trasformata e riprogettata durante tutta la prima metà del secolo la chiesa
di Santa Teresa che sarà completata, nelle decorazioni interne, negli anni
sessanta.
Nel cantiere settecentesco un contributo significativo viene dato da stuccatori
come Pietro Aversa, Giuseppe e Giovanni Gianforma,
Filippo Vincenti, da marmorari come i Privitera
e i Viola di Catania, da ebanisti come i Laganà,
dai pittori Sebastiano Aleotti, Pietro Azzarelli,
Stefano e Giovan Battista Ragazzi, Ludovico Svirech,
Vito D'Anna, Francesco Pascucci, Sebastiano
Pollace, Costantino Carasi. I capimastri più validi
sono Mario Mormina, Girolamo Iacitano,
Pietro Cultraro, Guglielmo Cannata, Antonino
e Vincenzo Pirré.
La città continua a rinnovarsi nel secondo Settecento. Si ricostruisce la
chiesa della Concezione (demolita) tra il sesto e il settimo
decennio; un nuovo progetto viene elaborato dall'ing. Corrado Mazza
di Noto per la chiesa di S. Francesco di Paola. Si ricostruisce
ex novo negli anni '80 l'abside della chiesa della Consolazione con un disegno
redatto da Corrado Mazza. Gli ultimi anni vedono l'inizio di due importanti
progetti: quello della nuova facciata della chiesa di S. Bartolomeo
su un'idea dell'architetto Antonino Mazza di Noto, sviluppata
dall'ing. Salvatore Alì e dal capomastro Pasquale
Ventura; quello della ricostruzione dell'abside della chiesa di
Santa Maria la Nova su disegno dell'architetto
Giuseppe Venanzio Marvuglia. Per questa fabbrica sarà l'inizio
di una grande trasformazione che si protrarrà per tutto l'Ottocento con
un continuo cambio di guardia di progettisti, con un risultato finale fondamentalmente
neoclassico. La personalità più interessante della fine del Settecento e
del primo Ottocento è l'architetto Salvatore Alì, figlio
di Luciano Alì, quest'ultimo attivo nel Settecento a Siracusa. Salvatore
Alì, oltre a dare il contributo più importante nella facciata di S. Bartolomeo,
ridisegna l'abside della chiesa del Carmine, progetta il terzo ordine della
chiesa di S. Giovanni, progetta il Carcere che verrà demolito per far posto
al palazzo Busacca; sarà autore anche di alcuni palazzetti.
Nell'architettura civile privata sono pochi i palazzi del Settecento che
ancora ci restano, date le demolizioni che si sono avute in questi ultimi
due secoli. Alla prima metà del Settecento è da riferire il palazzo
Susino, lungo il torrente di Santa Maria la Nova. Da riferire alla
seconda metà del Settecento è il palazzo Beneventano che
resta ancora senza una paternità. Sempre nel secondo Settecento sono da
collocare il palazzo Spadaro (in cui si riscontrano più
momenti progettuali, anche nell'Ottocento), il palazzo Fava,
e altri palazzetti che si trovano lungo i pendii della collina di S. Matteo.
La città storica che si modella nel contesto delle valli, mantenendo i percorsi
medievali, mantenendo gli aggregati dei quartieri popolari di S.
Giuseppe, dello Scifazzo, delle due fasce della
collina di S. Matteo sulla cava di S. Bartolomeo
e sulla cava di Santa Maria la Nova e sulla fascia della
collina del Rosario, mantenendo altresì il quartiere trogloditico
di Chiafura, si caratterizza per le architetture ecclesiastiche come città
tardobarocca, partecipe del clima culturale vissuto in tutta l'area sud-orientale,
confrontandosi con le proposte formulate a Noto, a Siracusa, ad Avola, a
Modica, a Ragusa e negli altri centri distrutti dal terremoto, facendo ricorso
a progettisti e ad artisti palermitani, o a quelle competenze che erano
presenti in vari centri siciliani e italiani, da Messina a Catania, da Napoli
a Roma. Si caratterizza, altresì come città neoclassica ed eclettica per
i palazzi privati che verranno a far da quinta lungo le vie principali.
"Il dato che ne fa una città unica - dice Paolo Portoghesi - è dovuto al suo colloquio con la natura. Il rapporto con la natura a Scicli è più riuscito che in qualunque altro centro di tutta l'area sud-orientale. Valga l'esempio della chiesa di S. Bartolomeo, unica per la bellezza dell'accostamento con lo scenario naturale: sembra veramente una perla dentro le valve di una conchiglia, un'immagine estremamente suggestiva, tra le più belle dell'architettura barocca". E proprio l'irregolarità a costituire il dato più originale di Scicli nel contesto delle città della Sicilia sud-orientale secondo il Tobriner. In secondo luogo è il connubio tra cultura dotta e cultura popolare a costituire il suo tratto originale, anzi "l'arte popolare o l'arte vernacolare è diventata stile d'architettura".
Per gentile concessione del prof. Paolo Nifosì, tratto dal libro "Scicli, una città barocca", Edito da Il Giornale di Scicli.
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